coriandoli a sorpresa
Giorni fa, passando davanti alla sede dell’università, mentre una piccola folla di chiassosi festaioli celebrava gli amici facendo esplodere nubi psichedeliche di coriandoli, il mio occhio è caduto sulla parola “confetti”, scritta a caratteri prismatici su tubi esplosivi di carta. Perché gli anglosassoni usano la parola confetti per indicare quelli che noi chiamiamo coriandoli?
La risposta è un incrocio tra botanica, tradizioni e linguistica e parte da un termine greco, fillobolia, che indica il lancio celebrativo di foglie, fiori e altro materiale vegetale verso una persona da festeggiare. L’immancabile interpretazione alternativa porta invece alla sublimazione di conflitti e lotte che avviene nelle battaglie carnevalesche a suon di frutti (le arance ad Ivrea, ad esempio) o di confetti-proiettile sparati da tubi simili a cerbottane, come racconta Anna Brownell Jameson nel suo “Diary of an Ennuyée” del 1826, durante una visita a Napoli “Among our most potent and malignant adversaries, was a troop of elegant masks in a long open carriage, the form of which was totally concealed by the boughs of laurel, and wreaths of artificial flowers with which it was covered. … They were armed with small painted targets and tin tubes, from which they shot vollies of confetti in such quantities and with such dexterous aim, that we were almost overwhelmed whenever we passed them. It was in vain we returned the compliment; our small shot rattled on their masks, or bounded from their shields, producing only shouts of laughter at our expense.” Di cosa erano fatti quei proiettili? Di frutta candita, di anice, di frutta secca e di altri materiali vegetali ricoperti di zucchero, ovvero confettati. Tra essi c’erano anche i semi del coriandolo che hanno poi lasciato il segno nella lingua italiana ma non in quella britannica.
Si può dire che queste sono le storie che ci piacerebbe trovare in un orto botanico?