Artemisia annua e la cura della malaria
Pochi premi Nobel hanno avuto a che fare con le sostanze chimiche prodotte dalle piante: Richard Willstätter nel 1915 e Hans Fischer nel 1930 lo hanno vinto per i loro studi sulla clorofilla, mentre a Robert Robinson è giunto nel 1946 per ricerche sugli alcaloidi, metaboliti vegetali da sempre usati come ispirazione per produrre farmaci. Nel 2015, a sorpresa, è andato a chi decenni fa ha introdotto la medicina occidentale all’uso di Artemisia annua e delll’artemisinina come antimalarico: la ricercatrice cinese Youyou Tu. Oltre a premiare una ricerca che ha salvato milioni di vite, il premio porta alcune domande: come si scoprono farmaci a partire da sostanze naturali? È un premio per le medicine tradizionali o per quella tecnologica occidentale?
A caccia di molecole
Per arricchire il nostro arsenale farmaceutico abbiamo due strade: partire da zero, sintetizzando in laboratorio molecole assenti in natura, oppure ispirarci a essa attraverso indagini chiamate bioprospezioni. La prima via prende il nome di drug design e prevede prima lo studio bersaglio e poi il disegno di una molecola che si possa modellare su di esso. La seconda via può essere condotta testando un po’ a caso derivati di piante sulle varie malattie note, per vedere se ne salta fuori uno efficace, oppure percorrendo un sentiero incerto ma almeno sommariamente tracciato. In quest’ultimo caso, si tratta di valutare piante già selezionate dalle medicine popolari di ogni angolo del pianeta, cercando in quei cataloghi i candidati più papabili. E questo è il lavoro di Youyou Tu. Quale sia l’approccio più vantaggioso non è ancora chiaro: le tecnologie moderne (informatica e robotica abbinate a chimica e farmacologia) permettono lo screening di decine di migliaia di molecole in pochi giorni, ma il loro costo è elevato mentre la pesca alle molecole naturali è più lenta e non meno complessa.
Alla base del successo dell’ispirazione naturale alla farmacia c’è il ruolo dei metaboliti secondari nei meccanismi dell’evoluzione, che in piante e microrganismi ha favorito il ricorso alla chimica per le relazioni co mondo circostante (difesa, comunicazione, attrazione), creando un’infinità di molecole organiche. Spesso, questi composti possono interagire con le cellule animali e con gli stessi bersagli terapeutici dei farmaci e quindi rappresentano un buon punto di partenza. A tutt’oggi i ricercatori non privilegiano una via sulle altre per individuare i cosiddetti lead compound (“composti guida”) da sottoporre a validazione, per verificarne efficacia e tossicità, ma va ricordato che, a prescindere dalla strategia di scoperta, quasi sempre il principio attivo finale è poi frutto di ulteriori rielaborazioni chimiche, mirate a migliorare la performance o a ridurre aspetti sfavorevoli. L’artemisinina da Nobel è un ottimo esempio pratico di questo processo.
Partendo dalle ricerche iniziate da Youyou Tu in Cina alla fine del secolo scorso si è giunti ad avere l’Organizzazione Mondiale per la Sanità che consiglia contro la malaria l’artemisinina e i suoi derivati artemetere, artesunato e arteetere. Una volta assunti dall’uomo, queste sostanze sono trasformati nel vero principio attivo efficace, la diidroartemisinina, e analoga sorte subisce la stessa artemisinina accumulata in foglie e fiori di Artemisia annua, una pianta che nella medicina tradizionale cinese era impiegata come febbrifugo. Perché quindi non usare direttamente l’artemisinina prodotta dalla pianta? Purtroppo, la scoperta di una sostanza attiva è solo il primo passo di un lungo percorso e solo il 20% dei farmaci di derivazione naturale oggi in commercio contiene un principio attivo identico a quello vegetale. Negli altri casi, serve modificare la sostanza ridurne la tossicità e migliorarne l’efficacia e la performance durante l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione nell’organismo umano. L’artemisinina, ad esempio, è scarsamente solubile in acqua e poco assorbita dall’organismo, combinazione che ne complica la somministrazione. I chimici l’hanno quindi modificato producendo l’artemetere, dotato di una migliore solubilità nei grassi (il che ne permette l’iniezione intramuscolare), e il più idrofilo artesunato, che può essere somministrato per via endovenosa e orale, migliorando l’efficacia complessiva. Come l’artemisinina, tutti i metaboliti suggeriti dalla natura attraverso le medicine tradizionali hanno sempre bisogno della mano dell’uomo prima di diventare farmaci abbastanza efficaci e utili.
Ce ne sarà abbastanza?
In molti casi, il ricorso alla chimica è essenziale per disporre di principio attivo in quantità sufficienti e Artemisia annua non fa eccezione neppure in questo caso. Si stima che nel 2013 vi siano stati 230 milioni di casi di malaria e oltre 400 000 morti (di cui ben oltre la metà bambini), numeri che rendono necessarie milioni di dosi di questi farmaci, con ovvie complicazioni di approvvigionamento. Sfortunatamente la pianta produce poca artemisinina e la accumula in quantità diverse a seconda del clima, del momento di raccolta e delle varietà coltivate.
Da tempo agronomi e fitochimici lavorano per ottenere varietà più produttive, mentre i chimici organici e i biotecnologi si dedicano allo sviluppo di vie di sintesi a basso costo e tali da permettere un accesso al farmaco anche da parte dei meno abbienti. L’artemisinina è però troppo elaborata per una sintesi industriale e per aumentarne la reperibilità è stato necessario unire le competenze disparate, indagando il processo con cui la pianta la produce e replicandone una parte all’interno di batteri opportunamente modificati. Grazie a loro possiamo ora produrre grandi quantità di un precursore dell’artemisinina, ovvero di una sua versione non completa poi rielaborata per via semisintetica ad artesunato, artemetere o artemisinina, con poche e semplici reazioni chimiche. Uno degli impianti più importanti dedicati a questo processo è in provincia di Cuneo e possiede dal 2014 una capacità di 50 tonnellate annue di farmaco che viene venduto a prezzo di costo.
In questa prospettiva, il Nobel a Youyou Tu è un riconoscimento per tutti gli scienziati coinvolti in una ricerca così complessa, dagli etnobotanici ai farmacologi, dai chimici ai biotecnologi e premia sia la scelta del punto di partenza (la ricerca di principi attivi in rimedi tradizionali) che il successivo percorso di validazione, trasformazione e produzione tipico della scienza occidentale. La scoperta dell’artemisinina e la possibilità di distribuirne in tutto il pianeta sono una conferma del buon uso che la farmacia può fare unendo le conoscenze tradizionali con le tecnologie più moderne.