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Disporre di una maggiore varietà di piante e animali nei nostri spazi urbani risponde a due, reciproci, vantaggi. La prima riguarda “noi”: essere esposti a più biodiversità aumenta il legame tra esseri umani e natura, non solo in termini quantitativi ma anche di scoperta, fascinazione e creazione di legami intimi e duraturi. In altre parole, alimenta la nostra biophilia. La seconda riguarda “loro”: creare città permeabili agli spostamenti, con zone ospitali e diffuse sul territorio metropolitano, significa per piante e animali poter accedere a zone altrimenti isolate, bloccate da muri fatti di case e strade, potersi riprodurre senza restare in nicchie chiuse e limitate. In altre parole, un verde diffuso e ben gestito rende le città più trasparenti alla vita di altri esseri viventi.

I bambini che non esplorano il verde oggi, che uomini saranno domani?

Per le nuove generazioni urbane, le esperienze naturalistiche dirette sono lentamente sostituite da quelle virtuali ed è sempre più chiaro che questa dinamica contribuisce a una crescente incapacità nel relazionarsi con l’esperienza di vita altrui. Quando presenti, le zone verdi sono spesso artificiali: recinti urbani fatti di tante isole separate tra loro, costruiti non per ospitare diversità ma per soddisfare esigenze estetiche o pratiche, ovvero sempre uguali tra loro. Al contrario, gli studi rivelano che l’esposizione a contesti gestiti secondo le reali esigenze delle piante aumenta le capacità cognitive e la concentrazione dei bambini.

Dal momento che i bambini di oggi saranno gli abitanti delle città del 2030 e oltre, questo influenza non solo la composizione della società ma anche il nostro rapporto con l’ambiente e i suoi bisogni. Osservare più biodiversità in città significa costruire un rapporto valoriale tra cittadini futuri e ambiente, basato sul senso di meraviglia prodotto dall’esplorazione di un ambiente vitale, interconnesso e dinamico, ben diverso dallo stile che spesso domina in molti parchi e giardini. Per chi non sviluppa questa emozione l’ambiente non è in genere un valore, dicono gli studi psicologici: i bambini che hanno vissuto di persona il sense of wonder naturalistico hanno una maggiore probabilità di essere adulti rispettosi dell’ambiente e saranno più facilmente in grado di portare questo valore nella gestione delle metropoli del 2030.

Cosa succede alle piante di città?

Servono vere infrastrutture verdi, che non solo permettano scambi tra noi e la natura ma anche in grado di consentire alla natura stessa di effettuare scambi al suo interno: migrazioni, spostamenti. Nel caso delle piante, temperature più elevate, esposizione a sostanze inquinanti, ostacoli fisici, scarsità di risorse e impollinatori, frammentazione facilitano la formazione di tribù urbane ben separate, che non si riproducono tra loro anche a poche centinaia di metri di distanza. Queste tribù possono avere caratteristiche trasversali, ad esempio una minore produzione di foglie e maggiori capacità di trattenere acqua per sopravvivere al calore e spesso ospitano meno piante native, per via della loro minore flessibilità rispetto a quelle esotiche provenienti da climi più simili a quello metropolitano.

Così, mentre in campagna piante rustiche tendono a produrre semi più leggeri per facilitarne la dispersione, perché la probabilità di trovare luoghi idonei alla crescita è alta, quelle metropolitane ne producono di più pesanti. In città i semi leggeri potrebbero viaggiare verso in zone inospitali mentre quelli grossi sono destinati a germogliare vicino alla pianta madre, dove evidentemente la vita è possibile. Questo crea però popolazioni chiuse. Paradossalmente (anche a livello di metafora), se in campagna è meglio viaggiare e contaminarsi, per le piante di città sembra meglio restare immobili, adattandosi alla clausura di uno spazio recintato, perdendo l’elemento di mescolanza ed esplorazione che stanno alla base della vita vegetale. Questa risposta è vincente nell’immediato ma a rischio nel medio-lungo termine, dato che riduce i vantaggi tipici di una riproduzione che mescola, scambia e contamina i patrimoni genetici delle generazioni future. Ed è un rischio che vale sia per “noi” che per “loro”.

Piante e animali: che relazioni urbane esistono?

Al tempo stesso, la perdita di biodiversità nelle città si traduce in minori opportunità di accoglienza per molti animali. Nelle zone in cui la vegetazione autoctona scende al di sotto del 70%, molte specie di uccelli calano drasticamente. Sulla carta, parchi e giardini possono invece essere eccellenti luoghi per accogliere biodiversità. Ad esempio, un normale giardino in una citta della provincia inglese ospita in trenta anni quasi un quarto di tutti gli insetti noti nel paese.

L’ospitalità non sembra però distribuita in modo uniforme. Tra le farfalle, ad esempio, esiste una precisa tipologia avvantaggiata dai giardini urbani attuali ed è quella delle generaliste più mobili, che possono usare i giardini come isole frammentate anche distanti tra loro nutrendosi su molti fiori differenti e non rifornendosi presso un limitato novero di piante. Le farfalle con un’alimentazione più specializzata richiedono giardini con specie vegetali più varie e quindi un’offerta più ampia. Le specie più fragili come le specialiste a corto raggio, infatti, faticano a saltare da un’isola all’altra se le distanze sono eccessive: avrebbero bisogno di più aree di sosta, ovvero di un network più capillare. Quello che conta è la distanza tra un giardino e l’altro, con una riscossa per microgiardini e balconi e con una conferma dell’importanza del mosaico a pezzi ravvicinati.

Da questo punto di vista i giardini possono ospitare molti insetti impollinatori creando una rete in cui gli appezzamenti coltivati coincidono con gli isolati cittadini. Occorre però accettare sistemi di gestione talvolta in conflitto col desiderio di ordine e con canoni estetici in contrasto rispetto alla dinamica della natura: gli sfalci dei prati andrebbero diradati, andrebbero evitati prati composti da singole specie, alcune zone andrebbero lasciate incolte. Quando questo accade il verde di città gode di una riscossa persino su quello rurale: in generale i giardini urbani offrono più asilo alle api selvatiche rispetto alle zone rurali con agricoltura intensiva.

Vietato sprecare, sempre

Il tema delle risorse si lega fortemente al valore ambientale dei giardini, la cui impostazione e gestione può rivelare un impatto addirittura negativo laddove non si tengano in conto le reali esigenze delle piante. In paesi come Australia, Stati Uniti e Spagna quasi il 60 per cento dell’acqua potabile consumata in estate finisce ad abbeverare prati composti da piante inadatte al clima di quei luoghi e alle quali sono richieste performance puramente estetiche irraggiungibili senza aiuti. Nonostante il basso costo dell’acqua potabile, si tratta di cifre importanti in termini economici e ambientali: tutta quell’acqua e stata raccolta, trattata, depurata e distratta dai cicli naturali. Sempre per ottemperare a richieste estetiche scollegate dal clima del luoghi, tutte le indagini disponibili hanno dimostrato che l’irrigazione non avviene mai in difetto: i dati delle indagini evidenziano che più del 60 per cento dei proprietari irriga il proprio giardino ben oltre il reale bisogno. Eppure esistono alternative, che passano attraverso l’accettare un ciclo vitale dei vegetali che prevede anche il secco o attraverso scelte più oculate , con l’utilizzo di piante tappezzanti, che formando una fitta copertura al suolo possono prosperare anche in assenza di irrigazioni sovrabbondanti, regalando comunque fioriture continue.

Il giardino è un luogo di resilienza ambientale nel paesaggio urbano, un rifugio contro il logorio della vita moderna sia per uomini sia per piante o animali, ma lo è in modo più efficace se la sua conduzione si ispira alla natura e se è abbastanza collegato ad altri spazi verdi, come nodi in una rete.